sabato 12 luglio 2008

Srebrenica
Attraverso i suoi occhi

Tra un paio di settimane finalmente torniamo, io e mio marito, sulla nostra isoletta di fronte alla costa croata: questo sarà il 20° anno, quasi consecutivo. Stesso paesetto, stessa famiglia, stessa casa. Alla fine dell'estate del 1991, fummo forse tra gli ultimi turisti ad imbarcarsi a Spalato alla volta di Pescara, privilegiati con prenotazione, e superammo - con sgomento e senso di colpa - la fila interminabile di automobili di residenti che non ce la fecero. E dovettero restare per affrontare l'inferno. Mancammo dall'isola per 4 interminabili anni: dapprima perché erano stati sospesi i collegamenti navali tra le due coste adriatiche; poi ci fu il nostro matrimonio e - infine - il cambio di casa e il trasloco.

Ci sentivamo cumunque telefonicamente, con Jadranka e Ivan, i nostri ospiti croati (cambio solo i nomi per riguardo nei loro confronti: col web non si sa mai...), 5-6 volte l'anno. Coppia straordinaria, senza figli, e stranamente assortita: un donnone dotato di una energia straordinaria e di una risata contagiosa, lei, vicina oggi ai 60 anni; un posa-piano, pigro esistenziale e bellissimo ancora oggi, quantunque ultrasettantenne, lui. Finalmente, a maggio del 1996, la telefonata per annunciare il nostro prossimo arrivo per l'estate. Compongo il numero - uno dei pochissimi che conosco a memoria - e aspetto che la mia sorella croata, questo è lei per me, mi risponda con il suo "molim?", "prego?". Mi dice molim? la vocetta infantile di un bimbo: biascico qualcosa che avrebbe dovuto essere una scusa, in un mix maccaronico di tedesco, italiano, inglese e croato (una lingua inventata da me e Jadranka, attraverso la quale facciamo interminabili chiacchierate) e riaggancio. Ho sbagliato numero. Lo ricompongo lentamente: molim? Ancora il bambino! Vuoi vedere che hanno cambiato numero? Del loro numero telefonico modifico, a casaccio, le ultime tre cifre: sarebbe stata comunque una utenza dell'isola che conta, in inverno, 1.500 anime. Forse al terzo tentativo, pizzico un "vecio" che parlicchia italiano (una volta l'insegnavano a scuola) e mi conferma che il numero è giusto. Riprovo: molim? Jadranka, finalmente! Scambio di convenevoli, ci parliamo addosso, ridiamo - felici ed emozionate entrambe per il prossimo rivederci - e le dico dell'errore che ho fatto digitando il suo numero... "No! No sbagliato: is my baby, Pétar! Adoptiren!" Ecco, tra di noi parliamo così: confusamente, in modo buffo, ridicolo, incomprensibile per gli altri. Ma il messaggio era chiarissimo: c'era un bimbo.

Pétar è nato a
Srebrenica nel 1990. Ai tempi del massacro di Mladic aveva 5 anni: non abbiamo mai saputo se fosse rimasto orfano o se sia stato lasciato indietro da una famiglia in fuga, magari con troppi figli o con troppe bocche da sfamare. Jadranka, nonostante la familiarità e il fortissimo affetto che ci lega, è sempre stata evasiva al riguardo; e a noi, va bene così. Raccolto dalla strada, Pétar è stato ospitato in un orfanotrofio, insieme a centinaia di altri bimbi come lui. All'epoca, subito dopo il massacro, il governo dava in affido questi piccoli ed elargiva anche un sussidio alle famiglie disposte a farsene carico. La prima famiglia cui venne affidato lo mise a lavorare nei campi, riservando a lui le mansioni più faticose e lasciandolo a digiuno se non le avesse portate a termine: gli assistenti sociali, a seguito di controlli fortunatamente attenti, lo riportarono in orfanotrofio. La seconda famiglia cui venne dato in affido era gestita da un padre-padrone alcolizzato e violento: scudisciava Pétar con una cintura alta cinque centimetri, tanto da costringerlo, spessissimo, a rifugiarsi sotto il letto e a farsi la pipì sotto. Venne tolto anche a loro e, finalmente, dato a Jadranka e Ivan, dopo qualche tempo di attenzione e rodaggio, definitivamente.

Quando lo abbiamo conosciuto, nell'estate del 1996, Pétar era uno scricciolo piccolo e magro, il viso affilato sul quale due occhi enormi, spaventati e diffidenti ti trapassavano da parte a parte, e - muti - ti domandavano: "Chi sei? Perché sei qui? Vuoi anche tu farmi, ancora, del male
?". È stato difficilissimo per me e per mio marito, senza figli, entrare nelle sue grazie: ma, con una gita in barca con Pétar al timone (mio marito) e con qualche piatto di vera pastasciutta italiana (di cui è golosissimo!) io, le barricate sono state abbattute. Ma quel primo anno è stato duro.
Spesso, la notte, sentivamo le sue urla disumane, grida altissime da animale ferito: aveva ancora incubi in cui sognava la bestia che lo prendeva a scudisciate. Si rifugiava, ancora tremante, sotto il letto: Jadranka lo prendeva tra le sue braccia poderose e, cullandolo, lo asciugava dal sudore e dalle lacrime che lo avevano inzuppato tutto.
E lo cambiava: sino a 12 anni ha dormito con il pannolone.

Pétar compie gli anni a maggio, ma - nel 1996 - richiese per il 10 agosto, la notte di San Lorenzo, una seconda festa. C'era un dolce croato, sulla tavola imbandita, fatto di strati di una sottil
issima pasta sfoglia, con miele e noci. "Cosa si festeggia, ragazzi?", abbiamo domandato: me lo ha spiegato Jadranka con il nostro linguaggio. Pétar voleva che io diventassi la sua druga mama (seconda mamma) e mio marito il suo drughi tata (secondo papà): ci aveva adottato! E ogni anno, il 10 agosto, facciamo ancora baldoria. Alla fine d'agosto, le vacanze stavano per finire e Pétar cambiò d'umore. Tornò ad essere cupo, scontroso e, in qualche modo, violento. Non ne capivamo la ragione finché Jadranka, con una seduta psicoanalitica che avrebbe messo in mutande Freud, riuscì ad estorcergli la verità: Pétar non capiva perché lo abbandonassimo anche noi; non capiva cosa avesse fatto di male, in cosa avesse sbagliato perché non lo volessimo più. Fu dura spiegargli che dovevamo - ma non volevamo - partire; che saremmo tornati l'anno successivo, e quello successivo ancora, così com'è stato; e che nessuno aveva intenzione di lasciarlo di nuovo. Forse lo capì, ma - la sera prima della nostra partenza - gli venne la febbre a quaranta: mio marito ha passato vicino al suo letto tutta la notte a fargli le pezzuole gelate.

Ora Pétar è un ragazzone alto e robusto, con mani che sembrano palanche e porta scarpe misura 46. Parla italo-romanesco: intelligentissimo, ha imparato l'italiano con i film di Alberto Sordi (conosce a memoria Un Americano a Roma e Il Marchese del Grillo), idea geniale di drughi tata che ha pensato di insegnargli così l'italiano! Ma dico io...
Un paio di anni fa, a luglio, è stato con noi a Roma per due settimane, e poi - come una vera famiglia - abbiamo raggiunto insieme l'isola per le vacanze. Siamo stati al bowling, che non aveva mai visto; da McDonald's, che adora (vedo bocche sorte... ma è un ragazzino, no?) dove si è abbuffato con 3 tripli-hamburger-carpiati e 4 patatine fritte; e, per la prima volta in vita sua, ha assaggiato lo zucchero filato...

L'11 luglio di tredici anni fa si consumava il genocidio di Srebrenica dal quale, per fortuna, il nostro Pétar è uscito vivo: con quale memoria di sé, del suo prima, non so, e credo avrei paura di sapere. Ma 8 mila persone sono state cancellate dalla faccia della terra, sono sparite nel nulla. Accanto alle tombe di 1.907 vittime, sono state tumulate altre 308 salme, riconosciute - grazie al DNA - in quest'ultimo anno: quasi 6 mila esseri umani, però, mancano ancora all'appello.

Ringrazio con tutto il cuore Riccardo che, con il suo splendido post, mi ha dato il coraggio di scrivere questo, sperando che, nonostante la lunghezza, qualcuno sia arrivato a leggere sino a qui: a chi lo ha fatto, dico grazie. Grazie a nome del mio Pétar e di tutti gli altri Pétar che magari, sudici, si avvicinano al parabrezza della vostra macchina per pulirvelo. Immaginate, solo per un attimo, che sia fuggito dall'orrore di Srebrenica, o dall'orrore dell'orfanotrofio che lo ha ospitato. O dalla violenza di un padre-padrone ubriaco. Pensate al mio Pétar, prima di cacciarlo via in malo modo, o prima di azionare i tergicristalli.
Vi prego, pensate a Pétar; voi, che non avrete la fortuna di rivederlo presto per essere stritolati in un abbraccio da un gigante che, all'orecchio, ti sussurra "moja druga mama", mia seconda mamma...
È il massimo che una mamma-non-mamma possa mai augurarsi.

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21 commenti:

riccardo gavioso ha detto...

particolarmente contento di essere il primo a commentare questa testimonianza che, grazie a te, si è trasformata in una bellissima storia.
La vita è un animale strano: a volte come una belva affamata si porta via tutto quello che possiedi, poi a distanza di tempo te lo restituisce. A questo sfortunato ragazzo è stata portata via la famiglia, è stata data l'illusone di averne trovate altre, ma alla fine ne ha ritrovate due in grado di riportarlo alla vita. Credo non ci possa essere soddisfazione più bella che essere adottata come genitore da un ragazzo cui la vita ha insegnato ad essere molto diffidente.
E come non sposare la tua conclusione: attenzione prima di scacciare qualcuno, perchè può portare il fardello di storie come questa o anche più tragica di questa.

un abbraccio, un grazie di cuore e un buon fine settimana

Massimiliano ha detto...

Sono senza parole....
Quando e se un giorno Pètar verrà a trovarti, vorrei conoscerlo per essere il suo zio di Ostia :D

Un bacione grande grande

Massimiliano ha detto...

@ riccardo gavioso:
Sei stato il primo per una manciata di secondi :D :D :D

Kaishe ha detto...

Che post dolcissimo...
Io l'ho letto con la commozione di ricordare i miei primi incontri con Serghei, il ragazzino (ora uomo, già papà) bielorusso che abbiamo ospitato per 8 estati dopo il disastro di Chernobyl... e con i ricordi delle ferie nei paesi sloveni di oramai molti anni fa... quando ci eprmavamo in piazza a parlare con i "vecj" che ci dicevano "Semo italiani"...

Ero entrata incuriosita dal nick... lo trovo vagamente friulaneggiante e invece siete romani...

Scusate l'intrusione e grazie pr le emozioni... credo che tornerò a leggervi perchè amo trovare post che vengono dal cuore...
Buonissima serata.

Anonimo ha detto...

Bastian, che bel post. Un solo commento: ti ringrazio di avermelo fatto leggere ...

Joe ha detto...

La storia di Peter e’ molto commovente e tanto ben scritta. Questa volta mi hai colpito molto vicino. Infatti pure noi abbiamo adottato, non un Peter, ma due bambine colombiane traumatizzate dalla guerra civile e dagli infiniti soprusi che da decenni tormentano questo infelice paese. Devo dirti che penso che i traumi subiti in tenera eta’ feriscono per il resto della vita. Alle nostre figlie ci sono voluti parecchi anni prima che ci dessero un abbraccio o un bacio volontario. Per anni ci hanno studiato con quei grandi occhioni neri e spauriti chiedendosi se questa volta fosse quella buona e se queste due persone estranee non si sarebbero anche loro trasformate un giorno nei mostri che avevano popolato i loro primi anni di vita. Quante volte ce le siamo viste arrivare di corsa tremanti e piangenti nel nostro letto nel mezzo della notte! Non dicevano nulla, ma erano terrorizzate e cercavano in noi quel po’ di sicurezza che pensavano potessimo offrirle.
Auguro a Peter di avere una vita felice anche se mi rendo conto degli ostacoli che deve superare.

Un abbraccio

Bastian Cuntrari ha detto...

@Riccardo, ancora grazie a te, caro! Sollecitata da tuo ricordo di Srebrenica, dovevo parlare del nostro Pétar. E troppo non ho raccontato! Di quando - a 7 anni - gli abbiamo portato 2 puzzle da 500 pezzi e, dopo pochissime istruzioni iniziali, li ha finiti entrambi nel giro di 2 ore. Di quando, a 9 anni, gli ho insegnato ad annodarsi le scarpe. O quando, facendo leva sulla sua voglia di pastasciutta - spaghetti, soprattutto - gli abbiamo insegnato ad arrotolarli sulla forchetta! Adesso, li mangia meglio di molti italiani...
Molti di questi flash li avevo dimenticati: ma sono tutti tornati alla memoria. Teneri e struggenti, come li avessi vissuti ieri...

È questo, essere mamma?

Un abbraccio forte.

Bastian Cuntrari ha detto...

@Massimiliano, sì: sarai lo zio di Ostia. E - credimi - per quanto tu gli possa dare, sarà sempre da lui che avrai di più...
Ma sai giocare a bowling?

Un bacio.

Bastian Cuntrari ha detto...

@Kaishe, cara, benvenuta!
Sì, hai ragione: Bastian Cuntrari non è proprio un nick "romano de Roma".
Mio padre, triestino purosangue, mi chiamava così, da ragazzina. E anche dopo... Debbo avergliene fatte proprio di tutti i colori!

È bello condividere con te l'emozione di questi "strani" incontri ravvicinati: Pétar ha confessato qualche settimana fa al drughi tata (al papà n° 1 certe confidenze non riesce a farle) di essere innamorato.
Non vedo l'ora di saperne di più, ma già sento una punta di gelosia.
L'animo "suoceresco" è già in agguato?

Non parlare di intrusioni! La porta è sempre aperta, e anche se non ci accade spesso di essere così "intimisti", càpita che a volte ci si lasci andare. E scalda il cuore.

Ti abbraccio.

Bastian Cuntrari ha detto...

@Pape Satan, grazie di cuore.
Sono un po' imbarazzata quando mi intenerisco e mi ritovo spiritualmente fragile e vulnerabile: non è proprio il mio modo di essere nella norma.

Ma ora lo sono, e spero di aver contagiato anche te, caro: tanto per sentirci addosso un po' di bontà e un po' di amore che sembra mancare sempre più spesso.

Ti auguro la serata più dolce e serena che tu possa desiderare e ti abbraccio.

Bastian Cuntrari ha detto...

@Joe, che affinità elettive impensate! Non riesco a immaginare come si possa sentire un genitore "vero", a tutto tondo - non quello che "transita" per l'estate, nonostante l'amore che proviamo per Pétar - sapendo cosa la propria creatura sia stata costretta a patire.
A volte trovavo Jadranka in lacrime: non ce la faccio - mi sussurrava - non ci riesco...

Non so esattamente cosa volesse dire: forse temeva che l'impegno assunto non fosse alla sua altezza. Forse pensava che l'essere diventata "mamma" quasi a 50 anni non fosse "normale". Una vita sino ad allora scandita su ritmi diversi, e all'improvviso stravolta in modo tanto deflagrante.

Ora non piange più: credo che quel tormento se lo sia lasciato alle spalle e mi sembra la mamma più felice del mondo.
E - a volte - un poco la invidio...

Un abbraccio.

M.Cristina ha detto...

Credo che essere mamma vuglia dire sentire l'altro, nei suoi sforzi, nelle sue conquiste, nel suo procedere. Si può essere madri in molti modi, anche da lontano, come si può non esserlo condividendo sangue e quotidianità.
Lui vi ha scelto e voi volete bene a lui, in fondo è semplice: siete parte della sua vita e lui della vostra. Questo è una familgia.
Un abbraccio.

Bastian Cuntrari ha detto...

@M. Cristina: sì, ci sentiamo papà e mamma a pieno titolo. Anche da lontano.
Hai ragione, cara, questa è una famiglia.

Ti abbraccio.

Luca Bleek Sartirano ha detto...

Non solo arrivato al fondo -con un misto di tristezza e bellezza allo stesso tempo - ma sono io a ringraziare te per averlo scritto...

:-)

Bastian Cuntrari ha detto...

@Bleek, caro, non avevo alcun dubbio che saresti arrivato sino alla fine. Nonostante le tue vignette al vetriolo, nonostante la tua immagine da bel tenebroso, sigaretta tra le labbra alla Humphrey Bogart, sei un tenero.

E scommetto che, alla fine del post, eri anche un po' commosso: per questo ti voglio bene, e ti abbraccio forte.

Anonimo ha detto...

@ bastian cuntrari,
questa storia, mi riporta alla storia di una donna americana (nata a New York), figlia di una coppia proveniente dall'Ucraina, che fuggiti dal loro paese, ottennero dagli USA asilo politico e nuova identità. Purtroppo, nonostante le coperture e le precauzioni, a distanza di alcuni anni, furono costretti ad allontanarsi dai figli (il maschio nato anch'egli in Ucraina), che vennero affidati momentaneamente da loro stessi ad un prete. Tornavano spesso a guardare da lontano i loro figli - quella donna aveva ancora nitido il ricordo della madre, che la guardava da lontano, per poi allontanarsi piangendo - mentre giocavano in giardino. Un giorno, non tornarono più. I due bambini, vennero affidati a due diverse famiglie. Il maschietto - da ricerche poi condotte dalla sorella - si seppe che aveva più volte cambiato nome e residenza. Stà di fatto, che i due non si rividero mai più, nè fu possibile sapere che fina avessero fatto i genitori. Credevo che non avrei mai fatto cenno a questa storia, ma il tuo post, mi ha colpito molto. Quella bambina, era mia madre. Lei, adesso è morta, ma trascorse moltissimi anni - fin dopo sposata e anche quando venne in Italia - a cercare notizie della sua famiglia. Per sua fortuna, la famiglia che si era presa cura di lei, la trattò come una figlia. Tanto che quando si sposò e si trasferì in Italia, portò con se colei che le aveva fatto da madre (il "padre" era nel frattempo morto). Non ho mai saputo, chi fossero i miei nonni, nè perchè fossero fuggiti dal loro paese, nè come mai gli USA accordarono asilo, nè perchè "sparirono". Quello che sò, è che dietro molti uomini che arrivano da noi, a volte si celano storie di persecuzioni e violenze, che li costringono ad abbandonare la loro patria e i loro affetti,non per cercare miglior fortuna, ma per cercare semplicemente di restare vivi. Forse, nonostante le fughe, a volte non riescono neppure in questo, ma abbiamo noi il diritto di impedirgli di provarci?

Bastian Cuntrari ha detto...

@Gian J., ma guarda che vaso di Pandora si va aprendo!
Dal post di Riccardo che mi ha indotto a parlare di Pétar, a Joe, con le sue splendide bimbe colombiane, che non si sa cosa abbiano patito.... e ora... la storia della tua nonna e della tua mamma: altri bimbi strappati agli affetti dalla malvagità, di cui sembra che il genere umano non riesca a non permeare le proprie azioni.

È di conforto, però, che ci siano state persone - come Jadranka, come Joe e sua moglie, e come la tua "nonna" adottiva - che hanno avuto cuore e coraggio, e sono riuscite a dare - tra mille difficoltà - rifugio e amore a chi, piccolo e innocente, ha dovuto portare sulle fragili spalle il fardello più pesante.

Ti abbraccio forte, caro.

il Russo ha detto...

Andai in vacanza nel nord della Croazia 14 anni fa, io ero un giovane che affrontava una vacanza diversa ma l'odore della guerra arrivava sino al mio albergo di Umago.
Porta il mio saluto a quella terra e alla sua gente, affinchè mai più si debba ripetere tutto ciò!

Bastian Cuntrari ha detto...

@Russo, consideralo fatto: credo che, sia quella terra che quella gente, siano difficili da dimenticare, soprattutto se conosciuti in quegli anni bui.

Ti abbraccio.

Anonimo ha detto...

Bastian Cuntrari, il tuo post mi ha quasi commosso, lo dico senza vergogna. Storie del genere mi fanno sentire piccola ed inutile, tante risorse umane sono sprecate ogni giorno quando si potrebbe aiutare nel modo semplice e puro mostrato da te e tuo marito nei confronti di quel ragazzino ferito dalla vita.
Adesso capisco perché quell'isola è così speciale... perché lo è davvero.
Un abbraccio

P.S. @joe, quello che hai fatto è uno splendido atto d'amore. Le tue figlie hanno un padre davvero in gamba, non so perché ma me lo sento ;)

Bastian Cuntrari ha detto...

@Martina, cara, grazie del commento, intenso e commosso.

Sì, quell'isola è un angolo di paradiso speciale: natura incontaminata, mare blu e smeraldo, gente che sembra ti conosca da una vita e che ti spalanca la porta della propria povera casa, felice che tu ne possa approfittare.

E poi, come in ogni paradiso che si rispetti, c'è il mio angelo: un po' cresciutello, in questi ultimi tempi, ma - per me - sempre il pulcino che ho visto tanti anni fa...

Un abbraccio.